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Mario De Micheli

 

 

I RACCONTI GRAFICI DI ROMANO

 

Appena un rapido appunto sull’arte di Romano, anche se il suo lavoro merita indubbiamente di più. Ma non mancherà l’occasione per l’avvenire, io spero, di approfondire alcuni temi che qui, per ora, non posso che sfiorare.

Romano, incisore e pittore, è un artista che racconta i propri disagi e i disagi che altri suoi compagni meridionali hanno sofferto e soffrono nella situazione in cui si trovano a vivere. Sono in fatti storie di emigranti quelle che egli ci mette sotto gli occhi: storie di treni, di soste in stazioni, di attese sulle banchine; storie di amare partenze e di più amari ritorni. Ma sono anche storie di città inospitali, di incontri brutali con ambienti disumanizzati, di curiosità e sgomenti di fronte agli assurdi di una società tecnologica.

Sennonchè Romano racconta tutte queste vicende senza che il racconto diventi mai cronaca descrittiva, aneddoto, episodismo. C’è in lui una forte carica fantastica che lo salva da simile rischio. Romano è in qualche modo una sorta di  Kubin proletario, una specie di Ensor popolare. Ma forse è anche più giusto dire che le sue radici creative affondano ancora più lontano, nella tradizione cioè di quei remoti  “trionfi della morte”  dove il macabro, il grottesco e il tragico si davano strettamente la mano.

Anche Romano è un disegnatore di scheletri. Spesso un grande scheletro s’adagia sul tetto delle carrozze ferroviarie dove s’accalca la povera gente che abbandona la propria terra; spesso lo scheletro affiora di sotto i panni del contadino in fuga verso il Nord. Sono scheletri di uomini e donne. Scheletri che portano una valigia in spalla, che parlano tra di loro, che siedono in disparte sui loro stracci, che si mescolano alla vita degli altri.

E tuttavia Romano crea delle immagini che non hanno nulla di funebre. Anzi. Nelle sue immagini c’è sempre uno scatto, una mordace ironia liberatoria, una energia che per essere drammatica non è meno viva e talvolta caustica. E poi c’è il suo segno: secco, rapido, preciso; c’è la sua sicurezza d’incisore. Le sue lastre hanno il pregio dell’opera risolta senza sofismi formali, senza civetteria.

In questo modo dunque Romano definisce i suoi  “personaggi” scheletri e no: la folla dei suoi emigranti e se stesso tra quella folla. Le sue incisioni sono come una  “ballata alla Villon. Cos” bisogna guardarle e capirle.

 

Milano, 8 febbraio 1974                                                                                

 

   Mario De Micheli      

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